INPS, 2020 anno eccezionale: attenuare gli effetti economici e sociali della pandemia e garantire l’efficienza dei servizi
Il 12 luglio è stato presentato il XX Rapporto Annuale dell’Inps, che copre nella sua interezza il 2020, un anno particolarmente impegnativo, in quanto all’attività ordinaria si è aggiunta quella straordinaria volta a fronteggiare l’emergenza sanitaria da Covid-19 e a garantire l’efficienza dei servizi e delle prestazioni a favore dei cittadini, dei lavoratori, dei pensionati e delle imprese.
Gli interventi messi in atto dall’Istituto per emergenza Covid hanno raggiunto oltre 15 milioni di beneficiari, pari a circa 20 milioni di individui e per una spesa complessiva pari a 44,5 miliardi di euro.
In particolare, ad oggi, tramite l’Istituto hanno ricevuto misure per emergenza Covid:
- 4 milioni e 300mila lavoratori autonomi, professionisti, stagionali, agricoli, lavoratori del turismo e dello spettacolo;
- 6 milioni e 700mila lavoratori dipendenti beneficiari delle integrazioni salariali, che hanno ricevuto in totale oltre 32,7 milioni di pagamenti di indennità, per una spesa complessiva di 23,8 miliardi di euro;
- 210mila disoccupati che hanno fruito del prolungamento del trattamento di disoccupazione (NASpI);
- 515mila nuclei familiari ai quali è stata assicurata l’estensione dei congedi dal lavoro per favorire la conciliazione dell’attività lavorativa con le esigenze familiari e di cura;
- 850mila nuclei familiari che hanno fruito del bonus baby-sitting;
- 722mila famiglie con gravi difficoltà economiche alle quali è stato erogato il Reddito emergenziale (REm);
- 216mila bonus per lavoratori domestici;
- 1 milione e 800mila nuclei familiari (circa 3,7 milioni di individui) che hanno beneficiato del Reddito di cittadinanza o della Pensione di cittadinanza, che, nel corso della pandemia, ha costituito un potente strumento di sostegno del reddito nei confronti delle fasce più bisognose della popolazione e, al contempo, ha contribuito a ridurre il rischio di tensioni sociali.
Sul piano contabile, la maggior parte della spesa per prestazioni Covid-19 dell’Inps è stata finanziata con stanziamenti a carico della fiscalità generale, una parte importante è rimasta tuttavia a carico del bilancio dell’Istituto; in particolare, la Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti, il Fondo di integrazione salariale e gli altri Fondi di solidarietà di settore hanno finanziato interventi di integrazione salariale per una spesa complessiva pari, nel 2020, a 7,3 miliardi di euro.
Inoltre, soprattutto per effetto del crollo dei contratti stagionali e a tempo determinato registrato nel 2020, le entrate contributive dell’Istituto si sono ridotte, rispetto al 2019, di 11 miliardi di euro.
L’aumento della spesa per integrazioni salariali e la contrazione delle entrate contributive hanno determinato un peggioramento del risultato finanziario di competenza dell’Istituto, che è passato da +6,6 miliardi di euro del 2019 (il miglior risultato degli ultimi 11 anni) a –7,1 miliardi di euro del 2020.
Tuttavia, nei primi cinque mesi dell’anno in corso si sono registrati importanti segnali di ripresa del tessuto produttivo, con un aumento di 4,5 miliardi di euro (+ 9% rispetto al 2020) delle entrate contributive riferite a tutto il settore privato; si auspica, di conseguenza, che la sostenuta ripresa economica in atto riporti le entrate contributive dell’Inps ai livelli del 2019, consentendoci di superare in un solo anno gli effetti finanziari negativi della pandemia.
Al di là dell’ampliamento degli ambiti di intervento dell’Inps in tale straordinario periodo, l’Istituto continua a mantenere alta l’attenzione sulla principale area delle proprie attività, ossia, quella delle prestazioni pensionistiche, soprattutto in questa fase di progressiva transizione dal regime retributivo a quello contributivo.
In particolare, il Rapporto Annuale dedica il secondo capitolo all’andamento dello stock e dei flussi delle pensioni nel 2019 e 2020.
Al 31 dicembre 2020, i pensionati italiani erano pari a circa 16 milioni, di cui 7,7milioni uomini e 8,3 milioni donne. Nonostante le donne pensionate siano la maggioranza, le pensioni medie mensili degli uomini (pari a 1.897 euro) superano significativamente quelle delle donne (pari a 1.365).
Il divario retributivo a livello territoriale si riflette nel dato pensionistico: le pensioni medie al Centro-Nord superano di poco i 1.700 euro, mentre quelle al Sud e Isole sono pari a 1.400 euro.
Le prestazioni previdenziali rappresentano l’81% del totale, mentre quelle assistenziali il 19%.
La categoria più numerosa è rappresentata dalle pensioni di anzianità/anticipate, con il 30,9% del totale, seguita da quella delle pensioni di vecchiaia con il 24,5% e dalle pensioni ai superstiti con il 20,5%; le prestazioni agli invalidi civili sono il 15,3% del totale; le prestazioni di invalidità previdenziale e le pensioni/assegni sociali sono rispettivamente il 5% e il 3,9%.
In relazione al contesto macroeconomico, la dinamica della spesa pensionistica si caratterizza per un rallentamento della crescita a partire dal 2014. Tuttavia, il rapporto tra numero di pensionati e occupati si mantiene su un livello che è tra i più elevati nel quadro europeo.
Inoltre, il rapporto tra l’importo complessivo delle pensioni, in termini nominali, e il numero di occupati è cresciuto del 70% tra il 2001 e il 2020. Però questo importo, rileva l’Istituto, ricomprende una componente di spesa assistenziale, la cui individuazione è uno dei temi ricorrenti nel dibattito sulla sostenibilità del sistema previdenziale italiano e può modificare significativamente analisi e posizionamento in chiave comparata con gli altri Paesi europei. Pertanto, come è stato ricordato in occasione della presentazione della Relazione Annuale 2021 da parte del Presidente dell’Inps, si è in attesa delle conclusioni a cui perverrà la specifica Commissione tecnica, prevista dalla Legge di Bilancio 2020, con il compito di analizzare la classificazione delle voci della spesa pubblica italiana per finalità previdenziali e assistenziali, in un’ottica di comparazione internazionale; sul piano metodologico è infatti importante fondare la distinzione tra previdenza e assistenza per quanto riguarda la natura delle prestazioni di welfare. Le conclusioni del lavoro in corso di svolgimento da parte della Commissione tecnica costituiranno senza dubbio uno stimolo per l’evoluzione degli attuali sistemi di classificazione della spesa di welfare a livello internazionale.
In questa chiave di lettura, tutte le prestazioni il cui diritto è condizionato all’esistenza di situazioni di bisogno economico rientrerebbero nella componente assistenziale della spesa sociale. Ciò risulta, peraltro, in linea con la prassi internazionale che distingue le prestazioni sociali basate sulla prova dei mezzi. Vi rientrano le prestazioni finalizzate a favorire obiettivi di inclusione sociale, rivolte all’intera popolazione italiana in età lavorativa, come ad esempio il Reddito di Cittadinanza, o rivolte ai soli soggetti in condizioni di quiescenza, come, ad esempio, l’assegno sociale ai cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito e le integrazioni al trattamento minimo a favore dei pensionati.
In questa prospettiva e in un’ottica di circoscrizione della spesa assistenziale, secondo l’Inps, la nozione di prova dei mezzi va necessariamente ampliata per includere non solo le prestazioni riconosciute sulla base delle condizioni economiche del beneficiario, ma anche quelle il cui diritto scaturisce dall’accertamento della perdita o della riduzione della capacità lavorativa. In tali casi, la prova dei mezzi va riferita ad un deficit afferente alle condizioni di salute, come nel caso delle pensioni e delle indennità di accompagnamento agli invalidi civili, nonché dei trattamenti pensionistici di guerra.
Infine, in un’ottica di confronto internazionale degli importi di spesa, l’Inps rileva che nel 2020, in qualità di sostituto di imposta, ha effettuato sulle prestazioni erogate ritenute pari a quasi 61 miliardi di euro, di cui 55,8 miliardi riversati all’Erario, 3,6 miliardi alle Regioni e 1,5 miliardi ai Comuni.
Anche in questo caso, considerate le differenze a livello internazionale nei livelli di tassazione delle prestazioni pensionistiche, una corretta comparazione della spesa previdenziale italiana con quella degli altri Paesi europei deve essere effettuata con rilevazioni in cui risulti neutralizzato l’effetto fiscale. Tenendo conto di questi importanti aspetti andrebbe, per trasparenza contabile, riconsiderato l’ammontare della spesa pensionistica del nostro Paese nei confronti statistici europei ed internazionali.
Oltre al tema centrale della sostenibilità, un altro grande tema su cui si è concentrato il dibattito pubblico recente in tema di pensioni è quello della flessibilità e della possibilità di anticipo dell’uscita dal mercato del lavoro.
La misura sperimentale e triennale di Quota 100 ha permesso il pensionamento anticipato di 180.000 uomini e 73.000 donne nel primo biennio 2019-20. Pensione anticipata Quota 100 è stata utilizzata prevalentemente da uomini, con redditi medio-alti e con una incidenza percentuale maggiore nel settore pubblico. Se ci si limita invece ai dipendenti del settore privato, oltre al genere e al reddito, assume un ruolo chiave anche la salute negli ultimi anni di carriera. Inoltre, un’analisi condotta su dati di impresa mostra come, rispetto agli impatti occupazionali attraverso la sostituzione dei pensionati in Quota 100 con lavoratori giovani, non c’è stato uno stimolo a maggiori assunzioni derivante dall’anticipo pensionistico.
L’istituto dell’Opzione Donna ha portato circa 35.000 pensionamenti nel 2020; dall’analisi di un campione di donne con i requisiti per l’adesione a questo canale di pensionamento emerge che, a differenza di quanto descritto per Quota 100, hanno scelto l’Opzione prevalentemente donne con redditi bassi, a volte silenti, ovvero senza versamenti contributivi nell’anno antecedente al pensionamento. Anche limitandosi al solo settore privato, il reddito basso si conferma essere la determinante più significativa per questa scelta.
Sul fronte della flessibilità in uscita dal mondo del lavoro, il dibattito pubblico recente si è concentrato su alcune proposte di revisione del sistema pensionistico. Nel Rapporto Annuale si approfondiscono tre proposte, dal punto di vista degli effetti economici sulla spesa pensionistica sia nel breve che nel lungo periodo. Tre sono le proposte dell’Istituto previdenziale, le quali nel lungo periodo di tempo, porterebbero a una riduzione della spesa pensionistica rispetto alla normativa vigente, ma con impatti chiaramente differenti e diversa sostenibilità sui conti pubblici:
- consentire il pensionamento anticipato con 41 anni di contribuzione, a prescindere dall’età;
- l’opzione al calcolo contributivo con 64 anni di età e 36 di contributi;
- e un’opzione di anticipo della sola quota contributiva della pensione a 63 anni, rimanendo ferma a 67 la quota retributiva.
Dall’approfondimento emerge che la prima proposta è la più costosa, partendo da 4,3 miliardi di euro nel 2022 e arrivando a 9,2 miliardi a fine decennio, pari allo 0,4% del prodotto interno lordo.
La seconda è meno onerosa, costando inizialmente 1,2 miliari toccando un picco di 4,7 miliardi nel 2027, e per questo più equa in termini intergenerazionali, con risparmi già poco prima del 2035 per effetto della minor quota di pensione dovuta all’anticipo, ma soprattutto per i risparmi generati dal calcolo contributivo. La terza proposta garantisce la flessibilità per la componente contributiva dell’assegno pensionistico con costi molto più bassi per il sistema: l’impegno di spesa parte da meno di 500 milioni nel 2022 e raggiungerebbe il massimo costo nel 2029 con 2,4 miliardi di euro.
Nel rapporto si analizzano anche gli effetti della pandemia da Covid-19 sui requisiti pensionistici e sui coefficienti di trasformazione. La brusca diminuzione della speranza di vita a 65 anni nel 2020 causata dalla pandemia ha riportato a un valore simile a quello registrato nel 2010, comportando un rallentamento temporaneo, che sarà riassorbito nell’arco di un decennio, della crescita dell’età di pensionamento per vecchiaia.
Gli eventi dell’anno pandemico e l’eccesso di mortalità che hanno prodotto ripropongono dunque anche le questioni legate ai livelli e alla periodica revisione dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo in rendita pensionistica. Non esistono risposte semplici a questi problemi, tuttavia, è auspicabile che si possano immaginare correttivi dei coefficienti di trasformazione che accrescano l’equità globale del sistema pensionistico italiano, come, ad esempio, modulando l’età di pensionamento, correggendo i coefficienti di trasformazione, individuando le condizioni di lavoro usuranti e/o gravose e riconoscendo i territori a maggior rischio ambientale.