Riorganizzare le strutture per gli anziani alla luce dell’emergenza sanitaria

Riorganizzare le strutture per gli anziani alla luce dell’emergenza sanitaria
18/02/2021
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Riorganizzare le strutture per gli anziani alla luce dell’emergenza sanitaria

Ripensare i servizi per anziani in Emilia-Romagna. L’impatto sociale del Covid-19 sulle strutture protette” uno studio commissionato da Fnp Cisl Emilia-Romagna al Centro di ricerca Relational Social Work dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

La ricerca presentata a Bologna lo scorso 8 febbraio, ha cercato di dare risposte alle domande:

Qual è stato l’impatto sociale dell’epidemia sulle persone fragili e sui servizi socio-assistenziali? Quali sono le conseguenze del distanziamento e delle misure di protezione sulle persone anziane, sui loro caregiver e sugli operatori delle strutture protette, rivelatesi l’anello debole della catena, deputate alla protezione delle persone accolte e, al contempo, fonte di contagio?

I risultati, ci permettono di cominciare a delineare linee di intervento e programmazione che tengano conto del mutato scenario conseguente all’epidemia”. Sette le strutture coinvolte nell’indagine – condotta la scorsa estate, quindi prima della seconda ondata autunnale –, scelte rispetto alle caratteristiche della comunità locale di riferimento (città grande, città media, paese/zona rurale), alla numerosità dei contagi degli ospiti e – dove possibile – degli operatori, sia rispetto alle dimensioni della struttura. “Il primo elemento che attraversa tutte le interviste è il vissuto iniziale di disorientamento, confusione e paura, si legge nello studio. Colpisce che l’immagine del ‘nemico invisibile’ sia stata utilizzata da uno degli ospiti e, al contempo, da un dirigente Asp: tutti si sono sentiti smarriti, senza certezze, in balia degli eventi. Soprattutto all’inizio c’è stata davvero la consapevolezza di stare combattendo contro la morte, propria e altrui, spesso a mani nude”.

Alcune riflessioni a partire dai dati raccolti fino ad ora

Le Strutture protette si sono rivelate, l’anello debole della catena, deputate alla protezione delle persone più fragili e, al contempo, spesso fonte di contagio. La questione della protezione sanitaria è stata oggetto di diversi studi, che hanno iniziato a delineare da un lato i principali nodi critici evidenziati nel corso dell’emergenza, dall’altro alcuni comportamenti virtuosi, che hanno agevolato una migliore gestione della situazione e, in molti casi, limitato le situazioni di contagio.

Si ritiene utile condividere alcune riflessioni tratte dal VII Report sulla non autosufficienza, pubblicato nel mese di dicembre 2020.

Occorre acquisire maggiore consapevolezza del quadro complessivo considerando i profondi mutamenti sopravvenuti negli ultimi anni nelle caratteristiche degli ospiti delle Strutture: persone sempre più anziane, bisognose di assistenza continua, anche sul piano sanitario, oppure con disturbi cognitivi, patologie psichiche, che si sommano alla non autosufficienza fisica. Accanto a questo viene segnalata una inadeguatezza sul piano strutturale, che ha favorito la promiscuità tra gli ospiti, in quanto solo una bassissima percentuale delle Strutture dispone di stanze singole. Un altro elemento da considerare è la carenza di personale che, secondo alcune ricerche, è strettamente correlata alla diffusione del contagio: al diminuire delle ore di personale, aumenta il rischio di contagio. La realtà italiana presenti grosse criticità da questo punto di vista: gli operatori sono pochi numericamente rispetto al resto d’Europa e hanno trattamenti economici e contrattuali peggiori, non sono inoltre previsti percorsi formativi specifici. Tutti gli elementi sopra evidenziati hanno indubbiamente inciso sull’impatto che l’emergenza sanitaria ha avuto sulle Strutture protette, occorre poi considerare che la risposta, tra le diverse Regioni, è stata abbastanza differenziata e che le indicazioni per la gestione dell’epidemia sono arrivate in ritardo rispetto, ad esempio, a quelle fornite ai presidi ospedalieri

Il ruolo centrale degli operatori

Una parte dell’analisi è dedicata agli operatori: vissuti molto pesanti, a tratti fortemente traumatici affrontati anche – ma non sempre e non ovunque – anche con un supporto psicologico messo a disposizione della struttura. Aspetto, questo, che i ricercatori suggeriscono di implementare, anche in chiave collettiva. “Il sostegno psicologico e la supervisione dovrebbero accompagnare i professionisti non soltanto in tempo di emergenza, dal momento che le professioni di cura richiedono un costante confronto con la sofferenza e la morte”, si legge. Il Centro di ricerca, alla luce delle interviste, invita le istituzioni anche all’apertura di una riflessione sulle condizioni contrattuali ed economiche degli operatori che lavorano nelle strutture protette, spesso in condizioni analoghe ai professionisti della sanità, ma con inquadramenti molto differenti. “A questo va aggiunto un altro dato: quello della trasversale grande disponibilità e flessibilità da parte degli operatori, che hanno affrontato con un enorme senso di responsabilità l’impegno richiesto. In pandemia gli operatori hanno acquisito notevoli abilità e competenze nella gestione concreta delle situazioni. Occorre, quindi, conoscere, valorizzare e mettere a sistema tutte le capacità apprese”.

Conseguenze sui familiari

Analogamente, vi sono state ripercussioni evidenti anche sui caregiver e i familiari, che si sono trovati a dover rinunciare al rapporto diretto coi parenti ricoverati, talora senza che questa scelta venisse compresa da parte di questi ultimi, soprattutto in presenza di condizioni di decadimento cognitivo. La scelta dell’inserimento di un familiare in Struttura protetta e la gestione delle fasi successive apre sempre uno scenario delicato, in cui i rapporti intra-familiari si modificano e occorre ridefinire ruoli e funzioni. Le prime ricerche che hanno accolto il punto di vista dei caregiver nel periodo dell’emergenza sanitaria evidenziano un aumento della preoccupazione e una sensazione di impotenza, dovuti da un lato alla dimensione affettiva, dall’altro alla mancanza di partecipazione alla vita della Struttura e quindi anche al mancato controllo dell’adeguatezza delle cure ricevute dai propri familiari. Nelle situazioni più gravi, si è arrivati a un punto di rottura tra familiari e Strutture, accusate di non aver attuato tutte le precauzioni necessarie per proteggere gli ospiti e di essere responsabili dei numerosi decessi.

Le riorganizzazione delle strutture

Gli elementi che attraversano tutte le interviste, svolte per la ricerca, è il vissuto iniziale di disorientamento, confusione e paura. Colpisce che l’immagine del ‘nemico invisibile’ sia stata utilizzata da uno degli ospiti e, al contempo, da un dirigente Asp: tutti si sono sentiti smarriti, senza certezze, in balia degli eventi. “Soprattutto all’inizio c’è stata davvero la consapevolezza di stare combattendo contro la morte, propria e altrui, spesso a mani nude”.

L’immagine delle strutture prima della pandemia, che emerge dalle descrizioni di tutti, soprattutto dei parenti, è quella di organizzazioni molto familiari, organizzate in modo da garantire una dimensione relazionale intima, ma, al contempo, aperta al territorio. “Il cambiamento delle condizioni è stato repentino e per gli ospiti si tratta di fare i conti con una situazione di isolamento che si potrà attenuare, ma difficilmente potrà essere cancellata del tutto”. Sì, allora a spazi di compartimentazione per isolare gli ospiti contagiati, aree all’aperto, finestre al piano terra per agevolare l’incontro con i parenti. La necessità di concentrare l’attenzione sulla cura della salute degli ospiti, anche riconfigurando parte delle strutture come reparti Covid ha sollevato, negli operatori in particolare, il timore di ridurre l’assistenza a un 'insieme di operazioni meccaniche', esclusivamente finalizzate a far fronte alle esigenze sanitarie e di accudimento fisico. Emerge ancora una volta l’esigenza di lavorare insieme agli operatori per definire la loro identità professionale.

Conclusioni

Riflettendo, infine, in prospettiva, tutti gli intervistati hanno dichiarato l’inadeguatezza dell’attuale assetto delle residenze socio-sanitarie, molte delle quali progettate e costruite quando il contesto e i bisogni erano molto diversi. Occorre quindi investire, oltre che sulle cra, sulla domiciliarità, sui servizi intermedi – come case alloggio e mini-appartamenti assistiti che alleggeriscano il carico domiciliare ma lascino ancora ampi margini di autonomia agli anziani – sulle residenze sanitarie, più piccole e più ‘case’ di quanto siano ora.

 

In allegato una breve sintesi della Ricerca.

 

 

 

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